Il mondo accademico anglosassone mi sorprende ogni volta di più. O forse mi delude ancora una volta quello italiano.
Sto scrivendo un articolo in inglese su concetti quali surveillance and social control e ho spedito il mio articolo (o meglio la bozza) ai più grandi ed illustri studiosi del settore a livello internazionale: mi hanno risposto con una serie di input e commenti che sono rimasto senza parole. Oddio, dovrebbe essere normale nel mondo accademico, perché solo con il confronto, lo scambio e le critiche si cresce e si matura. Ma non è così in Italia. Non è così in questo mondo. Due anni fa, quando pubblicai il mio terzo libro, lo spedì a 70 docenti del mio settore (SPS/08): solo 4 mi hanno risposto (con una, RS, ora siamo anche amici ed abbiamo avuto modo, in seguito, di parlare in maniera molto proficua di questo e di altri lavori) dicendomi grazie e solo uno (che stimo tantissimo e non solo per questo) mi ha inviato un suo commento con critiche al mio lavoro. Mi ha talmente sorpreso quella sua risposta che ho stampato la sua email e ancora la conservo. Il suo nome è EC.
Ogni tanto mando email per chiedere consigli a qualche docente che stimo e di cui ho letto articoli o libri: la maggior parte non risponde, qualcuno dice che mi faranno sapere (e poi non fanno sapere) e sinora solo due (della stessa università, ovvero Genova) mi hanno inviato articoli e qualche utile commento.
Quando, studente, stavo preparando la mia tesi scrissi a Chomsky: sì, Noam Chomsky. Gli scrissi con il mio pessimo inglese ponendogli una diecina di domande. Mi rispose punto per punto. Poi scrissi ad Herman e anche lui mi rispose punto per punto e mi allegò un suo articolo inedito. Da allora ho capito, come in questo blog ho già avuto modo di dire, che c’è un abisso tra il mondo accademico anglosassone e quello italiano. Le persone i cui libri stavo letteralmente divorando e che sono della autorità in materia, trovano il tempo di rispondere al più anonimo degli studenti che scrive dall’altra parte del pianeta. Quelle email mi hanno cambiato per sempre.
Eppure oggi ho ricevuto una dettagliata risposta ad una bozza del mio articolo da un illustre sociologo canadese e rimango senza parole. Rimango senza parole perché la confronto con la triste esperienza del mondo accademico italiano. Quel mondo in cui se vuoi che ti pubblichino un articolo devi conoscere il direttore della rivista o devi far parte del suo “gruppo”, quel mondo in cui ho mandato un articolo (magari pessimo) ad una nota rivista di sociologia italiana e mi hanno risposto dopo 18 lunghissimi mesi e dopo 3 sollecitazioni al direttore della rivista, dicendomi semplicemente: no grazie. Ho tradotto lo stesso articolo in inglese e l’ho inviato ad una delle più prestigiose riviste di sociologia a livello internazionale e mi hanno risposto in 3 mesi dicendomi no, ma argomentando punto per punto le ragioni del rifiuto, invitandomi a correggere qualche concetto o poi riprovare ad inviarlo. Ora l’articolo, grazie a quegli input e critiche, è “under review”. Senza quegli input, senza quei commenti non avrei avuto modo di migliorare l’articolo, ma soprattutto non avrei avuto modo di maturare, crescere e riflettere su alcuni errori. Cose impensabili in Italia.
Rimango sempre sorpreso quando qualche studente o studentessa mi scrive per avere informazioni e chiude l’email: “spero tanto mi possa rispondere”. Dio mio, certo che rispondo. Mi sembra talmente naturale, doveroso e rispettoso rispondere alle email che rimango sempre sbalordito da questa postilla finale. Ma capisco il perché lo fanno: i docenti italiani (per fortuna non tutti) non rispondono mai. Io stesso ho fatto varie prove. Ho scritto, con un indirizzo email di fantasia, a vari docenti di diverse facoltà, chiedendo informazioni, non tanto sul programma (a questa domanda rispondono quasi tutti) ma più in generale chiedendo qualche indicazioni bibliografica o avere maggiori informazione su concetti da loro stessi sviluppati : solo due mi hanno risposto. Ovviamente nessuno di questi era ordinario.
Ho inviato due abstract di miei articoli a vari docenti italiani, chiedendo se potevano darmi qualche indicazione bibliografica per migliorare e approfondire l’articolo: nessuno mi ha risposto. Ho scritto ad un ordinario (che ho avuto modo di conoscere personalmente) chiedendo se potesse indicarmi qualche rivista dove provare a far pubblicare questi articoli. Mi ha risposto in maniera sibillina dicendomi: ti farò sapere. Ancora aspetto. Sono passati 5 mesi. È inutile che aspetti. Ho tradotto l’articolo e prima di inviarlo a qualche rivista l’ho spedito ad uno dei più illustri docenti internazionali. L’ho spedito un mese fa e sono sicuro che mi risponderà, in maniera dettagliata, entro due mesi al massimo. Poi rivedrò, in base ai suoi commenti, l’articolo e solo allora proverò ad inviarlo ad una rivista accademica. Loro leggeranno in maniera anonima l’articolo e diranno, senza sapere chi io sia, se l’articolo va bene oppure no. Non devi conoscere l’ordinario di turno o far parte del suo gruppo per vederti accettato un articolo. Se è scritto bene viene pubblicato, altrimenti no. A pensarci bene, queste sembrano ovvietà, ma ahimè non lo sono. Perlomeno in Italia. E d’altronde ciò che un sociologo deve provare a fare è riflettere sull’ovvio senza fermarsi all’ovvio. Niente è più difficile.