di Everardo Minardi (Università di Teramo)
L’istruzione non è più un bene pubblico! Questa è in sintesi la conseguenza del d.l. 112, approvato in via definitiva dal Parlamento il 2 agosto, e che contiene la norma per cui le Università italiane da istituzioni pubbliche possono decidere (a maggioranza semplice dei senati accademici!) di trasformarsi in fondazioni di diritto privato, con tutte le conseguenze che ciò comporta sui diversi piani giuridici e organizzativi (come quelli dei rapporti di lavoro).
Questa iniziativa del governo, già divenuta legge a tutti gli effetti, è stata ed è tuttora ampiamente trascurata non solo dai partiti, dell’opposizione in particolare, ma anche dagli organi accademici delle Università italiane, diversamente preoccupate dei tagli significativi alle risorse finanziarie (tra cui quelle del fondo di finanziamento ordinario f.f.o. e della ricerca scientifica.
In realtà la decisione di favorire e sostenere la trasformazione delle Università in istituzioni di diritto privato (al pari delle imprese in questo caso non profit), avvia indiscutibilmente il processo di privatizzazione di strutture da sempre pubbliche nel nostro ordinamento; ma tale provvedimento soprattutto introduce, con un vero colpo di mano, senza coinvolgere alcuna componente della Università, un principio che scardina la vocazione pubblicazione della istituzione universitaria.
In altri termini l’istruzione non è più un bene pubblico, rivolto cioè a tutti i cittadini perchè vi possano accedere con libertà di scelta e la conseguente rimozione degli impedimenti socio-economici, ma è ormai un bene privato, da prodursi da parte di istituzioni private che operano sul mercato e quindi sono obbligate al necessario equilibrio tra costi e ricavi e di conseguenza a vendere i propri prodotti tenendo conto dei costi effettivi di questi.
I prodotti delle Università-istituzioni regolate dal codice civile sono certamente destinati ai cittadini interessati, che per il loro acquisto devono perciò disporre dei redditi adeguati anche in relazione ai differenziati livelli di qualità della offerta formativa (le lauree di ingresso triennali, le lauree magistrali, i master post laurea, le specializzazioni, i corsi di dottorato quale terzo livello della istruzione universitaria).
Stante il disinteresse generale, sorprendentemente anche dello stesso mondo accademico, non è facile avviare una riflessione ed un confronto approfondito sugli esiti di questa svolta balneare della Università italiana. Tuttavia quanto prodotto sul piano legislativo non è un provvedimento di riforma di una Università inefficiente, con meno o tanti “fannulloni”, poco connessa con le società e le economie territoriali, ancora meno presente ed attiva (con le solite e poche ed elette eccezioni) nei network della conoscenza europei ed internazionali; l’intervento legislativo (un amico la definirebbe una vera e propria “zampata” aggressiva e scorcentante) realizza un vero e proprio ribaltamento delle finalità e della logica di prestazione della isttuzione universitaria, che diventa certamente attore di quella economia di mercato dove la competizione e la concorrenza si sviluppano intorno ad un valore, la conoscenza, che oggi si configura come il nuovo e decisivo fattore della innovazione nei sistemi produttivi, nelle tecnologie, e quindi dello sviluppo dei sistemi economici e sociali dal livello locale a quello globale.
Guardandosi intorno ci si potrebbe aspettare un movimento di idee e di gruppi di interesse volto a reagire a tale profondo ed improvviso cambiamento, ma sia nelle grandi che nelle piccole Università non sono stati promossi eventi tali da essere registrati nelle reti anche solo telematiche, nei media anche solo regionali; e ciò induce una qualche riflessione non solo su come la rappresentazione delle istituzioni del privato si sia introdotta e diffusa rapidamente anche nell’ambito delle istituzioni pubbliche (si veda per ultimo il “piano industriale” con il Ministro Brunetta ha pianificato la omologazione delle amministrazioni pubbliche a quelle aziendali), ma anche quale sia l’intreccio degli interessi pubblici e soprattutto privati che ormai attraversano anche le istituzioni più prestigiose come le Università.
Occorre tuttavia aggiungere a questo fatto, di cui si dovranno registrare con attenzione gli effetti a breve e medio termine, un’altra imminente decisione annunciata dal Ministro della Istruzione e della Università a Rimini durante il meeting di CL: l’abolizione del valore legale della laurea da realizzarsi entro il prossimo anno.
Anche in questo caso occorre registrare una generalizzata reazione di silenzio assordante, dentro e fuori dalle Università.
Eppure se tale orientamento del governo divenisse legge, come promesso ed assicurato, le conseguenze sarebbero cariche di effetti negativi e distruttivi per le Università italiane, certamente soprattutto per le più piccole.
Oggi, se lauree rilasciate dalle Università italiane, come in economia o in ingegneria, presentano un valore di base che (fino ad un certo punto) prescinde dalla Università che l’ha rilasciato, e mette il portatore di tale titolo nella condizione di parità nei confronti di tutti gli altri con lo stesso titolo, domani la situazione sarebbe del tutto diversa. Giustamente direbbe qualcuno, il giovane che si è laureato in economia alla Bocconi (pagando anche a dieci volte di più le tasse di iscrizione) avrebbe migliori chance occupazionali rispetto al giovane laureato ad una Università del centro sud (semmai quella di Teramo o di Foggia o di Enna). E tutto per una società del mercato e del successo sembrerebbe giusto e giustificato!
Ma l’impatto sulle famiglie sarebbe fortemente selettivo, con penalizzazioni che nemmeno il sistema più ricco di borse riuscirebbe ad evitare (si guardi al caso inglese o statunitense); ma un’altra considerazione sarebbe necessario ed urgente avviare con estrema rapidità: a fronte dell’incremento significativo delle immatricolazioni alle più famose e note Università, quale sarebbe l’effetto che si innescherebbe nei confronti delle piccole e medie Università che regioni ed enti locali hanno voluto in questi anni con una moltiplicazione di università e di ulteriori forme di decentramento che ben poco hanno a che fare con progetti di sviluppo locale e con motivate tradizioni culturali e scientifiche di certe città?
Le piccole Università rischiano molto sia nel breve che ancora più nel medio periodo, se non adottano politiche rigorose per una svolta di qualità nella offerta formativa e sopratutto nella ricerca scientifica: questa è una verità che ci stiamo dicendo da molto tempo a cui ora non possiamo più sottrarci in alcun modo. Provare per credere!