Tra controllo sociale e informalità. Spunti di riflessione

Stamattina, quasi per caso, incontro uno studente. Ci fermiamo a chiacchierare e decidiamo di bere un caffè insieme. Già questo semplice inizio potrebbe essere uno spunto di riflessione: fermarsi a chiacchierare con uno studente in un mondo accademico così formale potrebbe essere oggetto di discussione: perché in Italia si è così formali? Perché da noi esiste questo distacco docente/discente che nel resto d’Europa è impensabile?

A berci un caffè dicevo: il caffè è una droga socialmente accettata, a differenza di altre che pur essendo usate da migliaia di anni sono considerate da qualche decennio (dagli anni trenta in particolar modo) pericolose e proibite. Il caffè giunge a noi in prevalenza da paesi un tempo colonizzati dagli europei (e da qui il tema della colonizzazione e ora dello sfruttamento delle piantagioni di caffè, ma anche il tema del commercio equo e solidale che prova a rompere con le logiche dello sfruttamento); il caffè è una bevanda di compagnia, è un modo di relazionarsi agli altri. Insomma gli spunti di riflessione, anche partendo da questo semplice spaccato di vita quotidiana, non mancano. Ma non è di questo che voglio parlare ora.

Un sociologo, e più in generale uno studioso di scienze sociali, dovrebbe sempre porsi domande su tutto ciò che lo circonda, indagare il e sul banale, affrontare l’ovvio, senza cadere nell’ovvietà.

«Dopo l’Erasmus sono cambiato». Questa frase non poteva lasciarmi indifferente. Mi chiedo in che modo un’esperienza all’estero possa cambiarci, come ci si senta al rientro e quali fattori hanno inciso in questo cambiamento.

«Là mi sentivo più libero: nessuno che mi conosceva, maggiore libertà di movimento e minore presenza della famiglia. Una volta rientrato ho dovuto fare i conti con l’idea che gli altri avevano di me e mi sono di nuovo visto incasellare all’interno di vecchi schemi». Mi sono chiesto, e continuo a chiedermi, quali meccanismi ci spingono a uniformarci al contesto sociale, alle aspettative degli altri, alle aspettative della società.

Insomma è stata una chiacchierata tra controllo sociale e informalità. Insomma è, ora, una riflessione sul tema del controllo sociale che altro non è che il tentativo da parte della società di dare uniformità al comportamento sociale, cercando di farci modellare alle aspettative degli altri. Gli strumenti che la società (o l’élite dominante) usa variano dalla religione all’educazione, dal diritto alla cultura, dai mass media alla dottrina neoliberista.

Dalle sue parole si è evinto che il non sentirsi incasellato all’interno di un ruolo, di un’etichetta sociale imposta dagli altri, è una forma di libertà. Vero. Verissimo. Sentirsi liberi di manifestarsi, di aprirsi e di farsi scoprire, è un modo di vivere liberamente all’interno di una società, o meglio una forma di libertà interiore. Il tentativo di dare uniformità e coerenza al comportamento sociale esiste però ovunque e non è un’invenzione recente. Tutte le comunità e società hanno cercato di dare uniformità al comportamento dei membri del gruppo. È evidente che più una società diventa strutturata e più si ha necessità di un controllo sociale codificato, esterno, formale: il diritto in primo luogo. Anche su questo si potrebbe discutere per ore ed in parte nel mio ultimo e modestissimo libro ho cercato di fare.

Ma ciò che più di tutti mi ha fatto riflettere è stata l’idea di sentirsi incasellato all’interno di un’etichetta che gli altri ci hanno affibbiato. Succede a tutti? Da cosa nasce questa etichetta e come ci arriva a noi? Perché ci sentiamo vittima di questo e come poterne uscire? Questa etichetta è sempre un fattore negativo o delle volte è utile per rapportarci agli altri?

Queste e altre domande sono nate grazie a questa chiacchierata, informale e piacevole. Segno evidente che spesso, per interrogarci sul mondo circostante, basta guardarci attorno, riflettere sulle cose a noi più vicine e farci una chiacchierata con qualcuno dinanzi ad una tazzina di caffè.

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