Che fare nel dopo Soru: autocritiche e qualche prima idea per ripartire. di Guido Melis.
E adesso, come sappiamo fare noi sardi, bisogna elaborare il lutto. Era nel conto una sconfitta di Renato Soru sul filo di lana, non la débacle che ci è capitata addosso. Colpo durissimo, per chi ha creduto e ancora crede nel progetto di Soru e nell’idea di una Sardegna “moderna” e al tempo stesso “antica”. Ma le lezioni della storia, quando vengono, vanno colte, e possibilmente razionalizzate per andare avanti. Perché abbiamo perduto? Dove abbiamo sbagliato? Cominciamo col dire che mai prima di oggi avevamo visto sulle elezioni regionali sarde un’offensiva avversaria così massiccia, pervicace, comunicativamente efficace. Berlusconi ha scelto scientemente come candidato alla Regione un egregio signor Nessuno e poi, rubandogli letteralmente la scena, ha combattuto lui in prima persona la battaglia, mettendo in campo non solo il suo indubbio carisma ma la sua onnipotenza mediatica. Abbiamo scherzato per un mese e mezzo sull’ignoto signor Cappellacci e sul Cavaliere propalatore di barzellette. Ammettiamo adesso di aver sottovalutato la potenza dell’operazione, e le sue ottime probabilità di riuscita. L’onda lunga del berlusconismo, inteso come la forma nuova dell’egemonia della destra non solo sui ceti tradizionalmente conservatori ma su ampi strati di quelli che erano un tempo le classi popolari o comunque i ceti medi elettori dei partiti democratici, è ancora possente, favorita da un Pd nazionale che stenta a trovare la sua collocazione e la sua linea unitaria. Credevano che la Sardegna, per chissà quali sue presunte doti primigenie (l’orgoglio dei sardi…), ne fosse al riparo. Ci siamo dovuti ricredere. Questo è il primo punto fermo, e dovremo tenerlo presente per il futuro. C’è però un secondo fattore della sconfitta, e sarebbe assurdo ignorarlo. Parlo dello stato pre-comatoso nel quale il Pd sardo ha versato sinché, giunto a Cagliari il commissario Passoni (che – ben inteso – ha fatto il possibile e l’impossibile, e al quale dobbiamo essere comunque grati) non si è cercato di tamponare le ferite più gravi e di dare al Partito e alle sue liste un po’ di belletto. Tardi, però, troppo tardi. Dopo che dal 14 ottobre in poi il Partito era stato bloccato dallo scontro interno e dall’inerzia del segretario eletto alle primarie, dopo che le stesse elezioni politiche si erano svolte in un clima di divisione e reciproco sospetto, con candidati “nominati” in base a lottizzazioni interne e senza troppa voglia di cambiare faccia al gruppo dirigente. Lo si è visto nella campagna elettorale: a Sassari e provincia (dove so di cosa parlo): nessuna conduzione unitaria e condivisa, ogni candidato in lizza contro gli altri, ogni fazione impegnata nella sua particolare campagna. Presumo che la stessa cosa sia avvenuta in tutta la Sardegna. Vedremo adesso, caso per caso, paese per paese, provincia per provincia, i risultati (a Sassari, lo dico con magra soddisfazione, molto meglio che altrove). Controlleremo, ad esempio, il voto disgiunto, che ha potentemente preso piede a favore di certi candidati e contro Soru: sarà istruttivo rileggerle, quelle schede. Un dato colpisce su tutti: come scrive “L’Unione sarda”, i voti nulli sono 18 mila, il terzo partito dell’isola. Sarà solo una casualità? E gli astenuti, i tanti che se ne sono rimasti a casa, da che parte li conteggeremo? Insomma, a conti fatti, il Pd ha giocato la sua partita come quelle squadre di calcio, magari composte di buoni giocatori e con qualche fuoriclasse, ma che poi in campo perdono anche contro le provinciali, perché prevalgono invidie e scioperi bianchi, nessuno corre per gli altri, tutti si sorvegliano a vicenda purché il compagno non segni il gol decisivo. Dunque fattore Berlusconi e fattore Pd sardo, innanzitutto. Ma c’è anche un terzo fattore, ed è la vera questione che vorrei proporre all’attenzione di chi legge. Parlo del riformismo moderno, dell’attività virtuosa di governo, della politica a progetto, che vuol cambiare il mondo e non semplicemente rifletterlo così com’è, correggendone le ingiustizie e le arretratezze. Ebbene, questo riformismo diciamo così “attivo” risulta, nella società contemporanea, frequentemente perdente. Perché agisce in un contesto (la crisi economico-finanziaria che ci sovrasta) incline a suggerire paure e ritirate in su connottu (non sto parlando qui di sardità: alludo alla rassicurante politica di sempre, quella delle clientele e dei favori personali, alla quale molti restano tenacemente attaccati); e perché ha bisogno – questo tipo di riformismo – di tempi più lunghi: è presbite e non miope, guarda lontano non vicino, e crea frutti solo a distanza, quando l’elettore spesso si è stancato di aspettarli. Nell’immediato, la politica riformista moderna, se vuole incidere, suscita invece opposizioni, disturba interessi grandi e piccoli, molesta le abitudini inveterate di interi strati sociali, di ceti professionali, di percettori di rendita a tutti i livelli. Scompagina insomma le nicchie rassicuranti nelle quali molti sopravvivono più o meno parassitariamente. Ho l’impressione che il riformismo di Renato Soru sia stato appunto di questa stoffa. Stoffa buona, per carità, anzi eccellente: ma da verificare all’usaggio, nei tempi lunghi. I tempi che questo voto sciagurato dei sardi ha drammaticamente abbreviato. Ed ora bisognerà ricominciare da capo. Riprendere la via della costruzione del Pd su basi nuove, aprendo ai cittadini e alla loro partecipazione consapevole com’era ed è nel suo dna (e dunque primarie, anzitutto, e possibilità di incidere dal basso sulle scelte dei gruppi dirigenti). Ripensare il progetto di Soru e aggiornarlo, modificarlo, migliorarlo, forse anche cambiarlo dove serve. E renderlo comprensibile più di quanto non siamo stati capaci di fare, convincendo con le parole e coi comportamenti chi non ci ha dato fiducia. Bisogna, in definitiva, ritornare alla vecchia, buona politica di una volta. Quella fatta tra la gente, paese per paese, casa per casa. Con pazienza e determinazione, con sacrificio e abnegazione personale. Con testardaggine anche. Sapendo che la nottata, come diceva il grande Eduardo, prima o poi ha da passare. Guido Melis