Massimo Ragnedda (Tiscali). La legge sono io: gli italiani amano me e non i partiti e dunque la riforma del lavoro si farà. In sintesi è questo il senso del diktat (sud) coreano del caro leader. La Bindi l’ha definita una caduta di stile, ma forse, più semplicemente, è la conferma dello stile autoritario di chi sa di governare in un momento particolare e senza opposizione. Il diktat coreano di Monti è, comunque lo si voglia leggere, l’ennesimo segno di una stagione molto pericolosa per la democrazia italiana: è in gioco la tenuta democratica dell’intero paese. Nessuno, neanche Prof. Monti e il suo sponsor al Quirinale (che chiede ai sindacati e ai partiti di non fare il loro lavoro, ovvero curare gli interessi di chi rappresentano) possono pensare di governare senza l’appoggio dei partiti o, peggio ancora, governare contro gli stessi partiti.
È vero, viviamo in un periodo di antipolitica, di facili slogan populistici anticasta, dove ci si scaglia contro la classe politica che si copre di sprechi. E in questo gli attuali leader politici hanno una grossa responsabilità. Mi piace però ricordare che all’interno di questa “casta” ci sono tante persone oneste ed in buona fede che si impegnano per passione e con spirito di sacrificio e sarebbe un grave errore fare di tutta l’erba un fascio. Il rischio, mi sia concesso, è quello di guardare il dito e non la luna e non cogliere così la gravità del momento e i veri responsabili della crisi. La vera casta non sono i politici, ma la nuova classe neofeudale transnazionale che, in maniera invisibile ed indiscreta, opera dietro le quinte e condiziona la politica degli stati sovrani.
I tempi che corrono vedono tecnici al governo, uomini e donne non legittimati dal voto popolare che in virtù della crisi governano per onorare i debiti che lo Stato sovrano ha contratto verso le banche e gli investitori privati. Governo di tecnici che in nome della crisi impongono cure sbagliate e pesanti che aumentano la disperazione e rovinano la pace sociale. Inutile nascondersi dietro un dito: la riforma del lavoro, così come proposta, accende gli animi e può facilmente degenerare in un periodo di grandi tensioni sociali. Tensioni che sono già sotto gli occhi di tutti e che, per ora, stanno sfociando in casi di disperazione personale: è lunghissima la scia di suicidi a causa dei debiti contratti con il fisco e con le banche. Non aggiungiamo altra carne al fuoco della disperazione.
Da una parte la crisi, lo sconforto e la povertà che aumenta e dall’altra la sconfinata ricchezza, fuori controllo e lontana da ogni regola, che avanza. Da una parte aumentano i poveri e dall’altra i ricchi diventano sempre più ricchi: il divario tra ricchi e poveri cresce ogni giorno di più. Da una parte l’economia reale e dall’altra l’economia finanziaria. Tra il 2003 e il 2010 l’economia finanziaria del pianeta, la vera casta globale, ha realizzato guadagni stratosferici e difficilmente quantificabili per noi comuni mortali. Basti dire che l’economia virtuale delle cosiddette banche d’affari dalle quali Monti proviene, vale 14 volte di più dell’economia reale. Lo ripeto perché vorrei che questo punto fosse chiaro: per ogni euro che il mondo reale produce con il lavoro e con lo scambio di beni e servizi, il mondo virtuale dell’economia finanziaria ne crea 14 che rimangono virtuali, ovvero esistono solo su un monitor del computer. In un anno, nell’intero globo, avvengono scambi per un valore di 15.000 miliardi di dollari: più o meno quanto il commercio delle valute con finalità speculative movimenta in quattro giorni.
Questo mondo virtuale è fatto di speculazioni, di scommesse, di soldi facili che si spostano da un fondo ad un altro con la velocità di un click del mouse. Miliardi e miliardi di dollari creati dal nulla per speculare sull’economia reale, fatta di lavoro e sudore, rischio di impresa e ingegno creativo, sacrifici e passione. La casta finanziaria scommette sui fallimenti degli Stati, anzi spesso aiuta gli stati a fallire, come nel caso della Grecia che è fruttato agli speculatori più di 60 miliardi di dollari, mentre per i lavoratori, pensionati e impiegati greci la crisi è costata il lavoro, la dignità e spesso la vita. Da una parte ci si arricchisce e con quei soldi ci si compra le democrazie e dall’altra si muore o si diventa schiavi di un sistema che ti prosciuga e ti obbliga a lavorare rimanendo povero, vero paradosso dei nostri tempi.
Soldi che si muovono in mercati non regolamentati e che agiscono indisturbati. Spetta alla politica porre dei limiti, ma la politica, mai come ora, ha le mani legate e gode di pessima reputazione. E non è un caso: se odi la politica, se ti allontani dalla cosa pubblica, lasci agire indisturbato chi piega le regole democratiche verso i propri interessi. È la classe politica che in nome degli interessi dei cittadini, dai quali sono eletti, che dovrebbe porre delle regole. Non possiamo di certo aspettare che siano i banchieri al governo, i tecnici che provengono dalla Goldman Sachs a porre dei limiti a questa indisturbata azione di rapina delle casse dello stato. Perché di rapina si tratta, non è un’esagerazione retorica.
L’Europa, come buona parte del mondo occidentale, è governata da oscuri oligarchi che provengono da questo mondo finanziario e spesso rimangono anonimi ed invisibile, ma sono pronti a distruggere le più importanti conquiste sindacali e democratiche degli ultimi decenni: vogliono smantellare il Welfare State che significa ospedali pubblici, scuole pubbliche, università pubbliche, pensioni dignitose, perché a loro il pubblico non conviene.
Mentre i lavoratori sono chiamati a pagare la crisi con la riforma della pensione, con l’aumento delle accise sui carburanti, con l’aumento dell’IVA sui prodotti di consumo ed ora con la riduzione delle tutele sindacali, il governo ha pagato, poche settimane fa, alla Morgan Stanley oltre due miliardi e mezzo di euro, più o meno l’equivalente di mezza riforma delle pensioni. Come dire: abbiamo fatto la riforma delle pensioni, obbligando le persone a lavorare per molti anni in più e percepire di meno, per pagare la superbanca d’affari americana dove, tra gli altri, ci lavora il figlio di Monti. L’Italia è stata costretta a pagare questa cifra in virtù di una particolare clausola stipulata nel lontano 1994 quando a dirigere le operazioni era l’allora a capo dello staff tecnico del Tesoro Mario Draghi che oggi, da presidente della BCE, impone i suoi diktat all’Europa. Ma per conti di chi? Dei cittadini o della nuova casta neofeudale?