Armi chimiche in Siria: un pretesto per la guerra?

guerraMassimo Ragnedda (Tiscali) Non difendo Bashar al-Assad, così come non l’ho mai fatto in questi due anni di guerra civile che insanguina la Siria. Non difendo il suo operato, la sua violenta repressione e i suoi metodi spesso brutali. Ma con altrettanta forza condanno quella galassia di sigle, di gruppi di fondamentalisti islamici che usano metodi barbari per contrastare il governo di Bashar al-Assad. Stati Uniti, Francia e Inghilterra ci ripetono instancabilmente, da due anni a questa parte, che la caduta di Bashar al-Assad è alle porte, che le ore del Rais sono contate, che la popolazione ha oramai voltato le spalle al regime. Non sono bastati gli armamenti e gli ingenti finanziamenti del Qatar e dell’Arabia Saudita (solo in queste ore sono arrivati ai terroristi che combattono contro Bashar al-Assad 400 tonnellate di armi regalate dalle dittature saudite e del Qatar), l’appoggio logistico e militare della Turchia e della Giordania (in queste ore si è tenuto ad Amman un consiglio di guerra, con Martin Dempsey il capo degli Stati maggiori riuniti degli Usa e i colleghi di Turchia, Qatar, Arabia Saudita, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Canada), gli addestratori della CIA, i miliziani terroristi giunti da tutto il mondo (un migliaio di terroristi con passaporto europeo combattono ora in Siria e sono pronti a rientrare in Europa e portare la loro guerra anche nel vecchio continente) e le armi “non letali” fornite dall’occidente. Non è bastato corrompere a suon di dollari qualche generale dell’esercito siriano, le autobombe piazzate nel cuore delle città siriane e il terrore dei fondamentalisti islamici. Non è bastato tutto questo se dopo due anni Bashar al-Assad è ancora al potere (grazie all’aiuto della Russia e dell’Iran, sia chiaro) e se il regolare esercito siriano riconquista zone un tempo in mano all’opposizione. Senza un intervento militare diretto degli Stati Uniti, senza un bombardamento massiccio che distrugga la flotta aerea siriana e spiani la strada alle milizie, difficilmente Bashar al-Assad cadrà. Ma gli Stati Uniti hanno bisogno di un casus belli, di una scusa legale per entrare ufficialmente in guerra: hanno insomma bisogno di una “giusta causa” da usare come espediente retorico per giustificare l’ennesima guerra del premio nobel per la pace Obama. E la scusa è lì, sotto gli occhi di tutti: l’uso delle armi chimiche. Non sono un esperto di armi chimiche, ma il buon senso mi dice che qualcosa in quel presunto attacco chimico da parte dell’esercito di Damasco non quadra. Non è una difesa di Bashar al-Assad, ma più semplicemente si tratta dell’uso dello spirito critico: qualcosa che tutti dovremmo fare prima di accettare acriticamente una tesi.

La storia recente è, infatti, piena di casus belli per giustificare una guerra, dall’incidente del Golfo del Tonchino (Vietnam) alle prove false sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Perché mai, mi chiedo, lo scaltro Rais dovrebbe usare le armi chimiche quando con un massiccio bombardamento con armi convenzionali otterrebbe gli stessi tragici risultati? Perché mai il furbo Bashar al-Assad dovrebbe usare le armi chimiche proprio mentre sono giunti in Siria gli ispettori dell’ONU per verificare l’eventuale uso di armi chimiche? Perché dovrebbe usare le armi chimiche quando sa che l’occidente non aspetta altro per attaccarlo e mettere fine al suo regime? Ovviamente non escludo a priori la possibilità, ma mi rifiuto di accettare questa ipotesi come un dato di fatto senza prima vedere prove imparziali. Gli ispettori dell’ONU sono lì per questo e dovremmo aspettare l’esito delle loro ispezioni. Nel frattempo Gran Bretagna, Francia e USA scaldano i motori per lanciare un’offensiva lampo, senza aspettare l’esito di quelle ispezioni. La decisione sembra già presa, a prescindere dalle eventuali prove che gli ispettori dell’ONU riusciranno a produrre. E quando una decisione è presa a priori significa che le prove non servono, ma serve solo un pretesto, una scusa, un espediente per entrare in guerra. E non importa se quell’espediente sia vero o falso, perché, come per l’Iraq dieci anni fa, la guerra è già stata decisa a tavolino. Una guerra dagli esiti imprevedibili, un vero salto nel buio, secondo molti analisti politici e militari.
Cosa succederà una volta caduto Bashar al-Assad? Chi prenderà il comando? La Siria rimarrà uno Stato o si spaccherà in due o più probabilmente in tre parti (la parte sunnita, quella alawita e quella kurda)? Israele si sentirà più sicuro perché l’arcinemico Hezbollah uscirà indebolito dalla caduta di Bashar al-Assad o meno sicuro perché troverà al confine, che per 40 anni è stato “pacifico”, gruppetti di terroristi pronti a tutto? Che ne sarà del Libano? La guerra tra sciiti e sunniti subirà una battuta di arresto o, come prevedibile, si estenderà ad altri scenari? Che farà l’Iran? Ma soprattutto cosa farà la Russia: perché mai, in chiave geostrategica, Mosca dovrebbe perdere l’ultimo grande alleato che ha nel Medio Oriente e rinunciare all’unico porto militare che ha nel Mediterraneo? Tante, troppe incognite all’orizzonte che dovrebbero spingere alla prudenza le diplomazie internazionali e invece, come sempre, c’è chi soffia sul vento della guerra e getta benzina sul fuoco. Un incendio che potrebbe avere esiti imprevedibili.

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